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Costruire beni comuni

25 anni della Cooperativa Sociale Lamberto Valli

“Il bene comune e i beni comuni”

Appunti di un amico di Lamberto e nostro: Franco Bentivogli

1. Lamberto Valli, un’eredità d’impegno generoso, civile e sociale

La fecondità del pensiero e la testimonianza di vita di Lamberto Valli, a 32 anni dalla sua scomparsa, è più viva che mai tra coloro che lo hanno conosciuto personalmente, che gli sono stati amici, che hanno seguito le sue trasmissioni in TV o letto i suoi numerosi articoli, oppure studiato a scuola i tre volumi dal titolo: L’UOMO INDIVISIBILE, testo antologico e interdisciplinare per la scuola media.
Lamberto è stato un educatore, un “maestro” vero, di quelli di cui oggi si sente la mancanza. Un uomo che credeva nella parola, nella sua profondità e combatteva ogni giorno nei terreni più impervi della vita, in favore dell’uomo e della sua pienezza. 
Fra le tante cose che si possono fare per ricordare un uomo, nessuna poteva risultare più coerente della Cooperativa Sociale che porta il suo nome e che oggi festeggia i suoi 25 anni: le sue finalità, le persone che vi trovano accoglienza e cure, la sua organizzazione, i suoi operatori, e ciò che rappresenta per coloro che sono coinvolti nei servizi, per le loro famiglie.
L’intera comunità di Forlimpopoli, ha nella cooperativa sociale Lamberto Valli – come in altre iniziative dallo stesso significato – una testimonianza e una sollecitazione per un impegno umanizzante, di comprensione, di partecipazione e di corresponsabilità, sperimentando concretamente il significato di un detto africano, che “Per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”.
Lamberto s’indignava per le ingiustizie ed esortava all’impegno per la loro rimozione, per il rinnovamento, per dare spazio a ciò che è nuovo, combattendo per il diritto d’ogni ragazzo di “diventare uomo”, costruendo un ordine nel quale “ognuno possa riconoscersi perché è insieme costruttore e beneficiario”.
Ci troviamo di fronte ad una straordinaria testimonianza di tensione educativa ed umanizzante, attraverso la quale, ancora oggi ci sentiamo spronati all’impegno, alla progettualità e a scoprire l’autenticità dell’umano non solo per le strade del mondo, ma come ci ricorda Lamberto, anche nel percorrere lentamente, in pigiama, dieci metri di corridoio di un ospedale - e ancor più in una cooperativa sociale -. Così come ci ricordava che occorre andare a trovare l’uomo malato non per consolarlo, ma per imparare a vivere; a saper scegliere in ogni momento fra l’amore o l’ingiustizia; a non far trascorrere la giornata senza la nostra misura d’amore; a far sì che in ogni ora del giorno, ci si senta in pace con noi stessi e in sintonia col nostro progetto.
Il “bene comune” - inteso come il bene di un insieme generico di persone, ma di una comunità, che considera le diversità e i bisogni e che   dovrebbe essere l’essenza stessa della politica costruttrice di beni comuni. In pratica, però, quest’espressione è spesso spogliata della sua profondità, restano parole che evaporano, e quindi non penetrano le scelte, le priorità dei bisogni di chi è più debole e fragile.
Quest’affievolimento del “bene comune” come valore centrale a misura della dignità dell’uomo, come cultura, come fine della politica e dell’agire personale quotidiano, rende la politica moralmente arida e mercantile, sempre più lontana dai valori umani e dai significati più elementari della giustizia.
Eppure mai come oggi il bene comune ha una valenza così attuale ed estesa. Basti pensare al fenomeno della mondializzazione, alla crescita delle disuguaglianze, sia nei consumi di beni primari, sia in quelle che condizionano le opportunità, sia nella soddisfazione di nuovi bisogni che derivano dai cambiamenti strutturali tecnici, scientifici e demografici, nel Nord e, ancor più, nel Sud del mondo. Il tutto, in un quadro dove i grandi poteri economici e finanziari fanno man bassa delle risorse dei vari paesi, utilizzando i vantaggi della deregolamentazione, della competitività, dell’assenza di regole e vincoli di autorità internazionali, della complicità di governi nazionali.
L’espressione bene comune indica un valore e una responsabilità, con valenza concreta, pubblica e privata, individuale e collettiva, uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, che detta principi e regole del nostro stare insieme. Senza trascurare inoltre, come il bene comune sia uno dei principali capisaldi della dottrina sociale ispirata al Vangelo di Cristo, con la sua forza morale e politica per i credenti e un valore culturale importante per tutti gli uomini di buona volontà.
Per questo sembrano opportuni alcuni richiami schematici alle fonti che definiscono l’accezione e le responsabilità per il bene comune.

2. Le accezioni del “bene comune”

la Costituzione italiana

·        art. 2: riconosce e garantisce i diritti dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale;

·        art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale……È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitando, di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

·        art. 41: l’iniziativa economica privata è libera.Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

·        La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

·        art. 42: …..la legge prevede i limiti [alla proprietà privata] allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

·        art. 43: Ai fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente o trasferire mediante espropriazione………….allo stato, a enti pubblici, o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali………

Come si vede, il bene comune, nella Costituzione non è solo un principio, un’indicazione programmatica, ma un vincolo, in base al quale è stabilita la funzione sociale, sia la proprietà, sia l’attività della gestione delle imprese e dell’economia del paese, ma anche una responsabilità personale dei cittadini.

La dottrina sociale cristiana    

·        “Una società che, a tutti i livelli, vuole intenzionalmente rimanere al servizio dell’essere umano è quella che si propone come meta prioritaria il bene comune, perché bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo”.

·        “Le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali d’ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali”.

·        “Il bene comune impegna tutti i membri della società: nessuno è esentato dal collaborare, secondo le proprie capacità al suo raggiungimento e al suo sviluppo”.  Il bene comune è conseguente alle più elevate inclinazioni dell’uomo (S. Tommaso), ma è un bene arduo da raggiungere perché richiede la capacità e la ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio (dal Catechismo della chiesa cattolica).

·        “Per la Gaudium et Spes……il bene comune è L’insieme di quelle condizioni di vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente”.

Oggi si deve assumere una dimensione universale di bene comune, “investendo diritti e doveri che riguardano l’intero genere umano” (Franco Appi, Cos’è la dottrina sociale della chiesa, Agrilavoro edizioni).

3. Lo sviluppo del Welfare State e il bene comune

Il Welfare State, con le sue politiche d’innovazione sociale, ha costituito il mosaico del “bene comune” (R. Petrella). Pur non eliminando le differenze di reddito e d’accesso, ha affermato due importanti principi: la sicurezza dell’esistenza e la garanzia dei diritti, rafforzando la coesione sociale, promuovendo una cultura e una coscienza del bene comune e favorendo lo sviluppo economico e sociale del paese.
Il concetto di Welfare state, richiama quello di cittadino concreto, con le sue specificità, ma richiama contestualmente anche l’essere comunità, la qualità dello stare insieme. Comunità che non è solo un territorio qualsiasi, un perimetro amministrativo, o peggio una folla solitaria, ma un  insieme di persone in relazione tra loro, capaci di accogliere (si tratti di persone con problemi e di stranieri), mai escludere, mai emarginare, praticando l’ “I care” di don Milani, il mi interessa, mi prendo cura, vivendo in relazione, in solidarietà, costruendo progetti condivisi, beni comuni, e cooperare per realizzarli.
Anche per la sua valenza politica, Welfare State verrà preso di mira dai politici conservatori e dai suoi teorici che dagli anni ’80, anche in Italia, faranno del neo-liberismo il proprio cavallo di battaglia.
I nuovi comandamenti del neo-liberismo sono caratterizzati da una forte spinta alla deregolamentazione, all’individualismo ed egoismo   sfrenati, alla esaltazione della competitività, senza vincoli etici e sociali, e soprattutto, mettendo, conseguentemente, in discussione i sistemi di Welfare State, ritenuti causa di sprechi intollerabili (si veda il peso del reaganismo negli USA, della Thatcher nel Regno Unito nella crescita della povertà e delle disuguaglianza, e, sia pure in maniera più frenata, grazie alla resistenza dei sindacati, po’ in tutti i paesi europei, Italia compresa).
Il significato dell’attacco alle politiche del Welfare sollevato dalla campagna elettorale di R. Reagan che lo portò alla presidenza degli USA, tutta centrata sul neo-liberismo, fu acutamente colto dai vescovi cattolici americani, che ne denunciarono la gravita, l’inaccet­tabilità morale per la filosofia che sottendeva, e in altre parole la colpevolizzazione dei poveri e dei deboli.
In Italia, l’adozione della filosofia neo-liberista (con le sue traduzioni pratiche col rampantismo, e, dell’arraffi chi può), ha fatto sì che le esigenze di completamento e aggiornamento del Welfare State fossero accantonate, indebolendo, da una lato, la coesione sociale, e dall’altro alimentando tendenze favorevoli alla riduzione delle tutele, anziché estenderle ai nuovi lavori, e tutte quelle nuove esigenze, rese attuali nel lavoro, da nuove forme d’organizzazione, nuovi rapporti, nuove flessibilità, nonché da domande, soprattutto da parte dei giovani, di nuove risposte al problema del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita.
L’attacco al Welfare State ha puntato soprattutto sugli alti costi, sulle degenerazioni assistenzialistiche, e inefficienze, proponendo solo tagli, mai soluzioni di merito e ciò a costretto i lavoratori su posizioni difensive.
Sul terreno dei costi del sistema di Welfare, più che una questione di quantità, c’è un problema di distribuzione e qualificazione. Il Welfare attuale sicuramente penalizza le persone povere e il sostegno della ricerca del lavoro. Ma mentre si grida sugli alti costi del Welfare, non si dice che l’evasione fiscale ha raggiunto livelli scandalosi, come pure il lavoro nero e le pratiche dei condoni che premiano l’evasione e l’illegalità.
E’ certamente vero che il sistema di Welfare presenta dei limiti, non      ultimo, la scarsa consapevolezza che a fianco d’ogni diritto sancito, c’è un dovere, che, se non è assolto, o non è assolto bene, diventa un diritto negato, perciò un operatore dei servizi che non fa bene il suo dovere, in quel momento cancella la legge che stabilisce il diritto al servizio. Inoltre possono esistere conflitti d’interesse tra operatori dei servizi e utenti, che non sono riconosciuti, tutto a danno degli utenti (fissazione degli orari, turni, ferie, ecc.).
Il rinnovamento del Welfare State con tutti gli aggiornamenti che le trasformazioni richiedono, deve avvenire, recuperando il valore del bene comune, come finalità e responsabilità personale e collettiva.
Questo rinnovamento deve inoltre valorizzare le risorse della      cooperazione sociale, non come accessorio occasionale, o per ridurre i costi, ma come componente a pieno titolo del quadro strategico dei servizi e d’innovazione degli stessi, tra i quali il modello d’integrazione con la comunità locale e col volontariato.

4. Individualismo e corporativismo, nemici del ”bene comune”

I cambiamenti strutturali, la filosofia della competitività, il minor peso di quelle grandi agenzie di cultura e formazione alla solidarietà e al bene comune che sono stati i sindacati in Italia, hanno lasciato spazio, ad un crescente individualismo e soggettivismo, che mal si conciliano, nella teoria e nella pratica, con il principio del bene comune.
Le trasformazioni del lavoro, infatti (riduzione del lavoro dipendente, terzia­riz­zazione, crescita del lavoro autonomo), vedono il venir meno di masse consistenti di lavoratori che, per organizzazione del lavoro e sindacale, vivevano forti esperienze solidaristiche, politiche e sindacali (la difesa dei compagni di lavoro, la tutela dei soggetti deboli nel lavoro, la solidarietà internazionale). Queste esperienze favorivano nei lavoratori una crescita culturale e politica, solidaristica (per solidarietà corte e lunghe), mentre nei nuovi lavori dove prevalgono le soluzioni individualistiche dei problemi, può capitare che la competitività scalzi la solidarietà e renda molto labile il concetto di bene comune.
Inoltre, non mancano casi e settori con forti ripiegamenti corporativi, che, in concreto escludono, al di là dalle parole usate, di inquadrare le proprie rivendicazioni ai vincoli del bene comune.
La recente campagna elettorale ha visto esaltare la difesa ossessiva dei propri interessi, una vera e propria ode del più rozzo egoismo, del proprio particolare (leggi che depenalizzano i propri reati personali, rendite miliardarie ed eredita miliardarie, esentasse, paradisi fiscali, veri e propri rifugi protetti per centri di malaffare, evasori fiscali, corruttori, riciclaggio di danaro sporco, affari di mafie d’ogni genere), insultando e irridendo quei cittadini che hanno presente che il proprio interesse non deve essere disgiunto dal bene comune. E’ consolante che questi cittadini, anche se di poco, in Italia siano la maggioranza.
Vaste e significative esperienze di partecipazione sociale nel territorio, d’organizzazione e gestione dei servizi sociali, possono offrire nuovi spazi di crescita culturale dei cittadini d’ogni età, d’occasioni per arricchire di senso la propria esistenza, anche attraverso la pratica della solidarietà e della costruzione del bene comune.

5. Dal locale al globale. La necessità d’istituzioni e regole sopranazionali

Mai come in questo tempo avvertiamo il realismo della mondialità, o per i decentramenti delle imprese, o per i prodotti sottocosto, o per l’immi­gra­zio­ne o per le intollerabili situazioni d’assenza di diritti fondamentali prodot­ti dal sottosviluppo (fame, sete, malattie, guerre, regimi dittatoriali, assenza dei diritti umani elementari). Ma anche beni comuni di tutti (acqua, aria, deforestazioni, inquinamento, ecc.), che se non perseguiti possono avere esiti drammatici.
Questi problemi non si risolvono ignorando la mondializzazione, perché esistono e nessuno può dire di NON SAPERE, e perché irrompono quotidianamente nelle nostre case attraverso i mass media e ci interpellano come paese e come cittadini, anche singolarmente e non si può pensare di assolversi con qualche euro per una adozione a distanza.
Vediamo qualche dato:

le società del mondo sviluppato, hanno l’11% della popolazione mondiale, detengono l’86% della ricchezza mondiale e l’88% dei consumi mondiali; ci sembra chiaro che non perseguono il bene comune, l’interesse generale;

le disuguagliane aumentano anche in Italia, dal 1989 al 1998, il 10% delle famiglie più ricche ha incrementato la propria quota dal 25,2% al 27,5%; il 10% delle più povere è scesa dal 2,7% al 2,0%;

L’estrema povertà e le disuguaglianze, si trasformano, nei vari paesi, in minore durata della vita, istruzione, salute, alimentazione, servizi sociali, benessere, opportunità.
La povertà, quella dal volto di sempre, della privazione, si somma all’emarginazione, alle minori (se non all’assenza) opportunità di studio, d’uso delle nuove tecnologie, di sapere, di mobilità, ed infine, alle povertà immateriali e relazionali.
I poveri dei paesi del Nord del mondo non possono essere l’alibi per non esercitare la solidarietà a livello mondiale – tentazione subdola – anche perché, questi poveri – di casa nostra - sono esattamente l’appendice dei poveri dei PVS, le vittime delle stesse politiche, dei sistemi di Welfare incompiuti o tagliati, della mercificazione come parametro di valore, delle deregolamentazioni, della considerazione della povertà come una colpa e la solidarietà sociale, uno spreco.

6. Le nostre responsabilità per un progetto mondiale di solidarietà

Realisticamente, siamo la prima generazione che si trova di fronte al dovere inderogabile di predisporre un progetto di solidarietà mondiale, che ci faccia affrontare i problemi dello sviluppo, della giustizia in questa dimensione.
Per una tale politica occorrono istituzioni nazionali ed internazionali orientate alla solidarietà, non all’esasperazione degli interessi nazionali, nel totale disprezzo per la giustizia, per la solidarietà e la gratuità.
Bisogna riscoprire, ridefinire che cosa significa porre la persona al centro della politica e dei servizi, nel macro e nel micro: priorità, risorse, competenze, motivazioni, condizioni di lavoro, orari, controlli, non autoreferenza.
La base sociale di una politica solidale non può che nascere da cittadini solidali, dalla vitalità delle aggregazioni sociali, le parrocchie, le associazioni, i gruppi di volontariato, le cooperative sociali, i sindacati, dall’insieme d’esperienze di partecipazione, di relazione, di condivisione, che diventano tessuto comunitario e solidarietà concreta, sistemica, non occasionale o eccezionale.
Uno dei grandi rischi oggi è la fuga dalle responsabilità: l’incapacità o la reticenza degli enti locali di dare sostanza ai numerosi impegni, previsti dalle leggi, di organizzare la partecipazione sociale sulle politiche locali, di aprirsi ai cittadini e non solo ai gruppi organizzati e, ancor più, di essere la mappa territoriale aggiornata della realtà umana e sociale, delle sue problematiche e fragilità, dei suoi bisogni, e delle sue risorse sociali, orientate ad interagire tra di loro e con le istituzioni. Ma soprattutto, un’amministrazione che non si avvita sull’esistente ma sa rinnovarsi e innovare, contrastando le sacche dei cosiddetti “diritti acquisiti”, e burocrazie parassitarie, che inevitabilmente si formano se non ci sono robusti anticorpi democratici, di rigore e di controllo.
Fare il bene comune costruendo beni comuni vuol dire rendere effettiva la cittadinanza, prendere sul serio la dignità d’ogni individuo, a partire da quelli con problemi, non dimenticando mai che – per usare un’efficace espressione di J. Moltman – si può “essere svantaggiati a causa di un Handicap, o venire svantaggiati a causa della società degli altri”. Quest’ultimo Handicap è scandaloso, perché è evitabile e il “superarlo insieme, handicappati e non, può fare di questa società lacerata una comunità più umana”.
Nelle politiche locali devono essere evidenti i pesi che si riconoscono ad ogni cosa, per evitare che il peso degli interessi arroganti, dei parassitismi e dei corporativismi soffochino il nuovo che chiede di nascere.

7. Le politiche degli enti locali presupposti del “bene comune”

Nella retorica politica, capita abitualmente di sentire grandi omaggi al terzo settore, termine sotto di cui ormai si confrontano diverse definizioni e sottintende diverse cose. La confusione attuale, mi sembra, serve soprattutto a disperdere, legalmente, le risorse, senza poter intravedere le priorità.
Nella strategia degli enti locali per il perseguimento del bene comune, cooperative sociali, volontariato, associazioni, sono partners insostituibili. E questo non perché costano molto meno, dei servizi diretti, ma per il reale valore aggiunto di questi organismi, in qualità dei servizi, aree d’intervento, qualità d’innovazione, radicamento sociale, professionalità e motivazione degli operatori.
Quando si pensa che nella Cooperativa Sociale Lamberto Valli, hanno svolto il proprio servizio gratuito almeno 110 volontari, 40 obiettori di coscienza, 60 fra soci e dipendenti, ci si rende conto quale ricchezza d’impegno, motivazioni, gratuità ha saputo suscitare, e a sua volta, quale ricchezza, in termini di lavoro, di confronto e cultura solidale, abbia profuso nella e per la comunità di Forlimpopoli.
Ecco allora la necessità delle priorità, degli organismi e dei progetti da sostenere, delle loro ragioni, necessità e credibilità, di questi che costituiscono dei veri e propri “beni comuni”.
La tentazione, spesso la scelta, di dare quattro soldi a tutti, può essere elettoralisticamente valida, garantire tranquillità, ma è una non scelta, perché non respon­sa­bi­lizza gli amministratori, non fa crescere i servizi che operano sulle fasce deboli, a sostegno dell’autonomia delle persone e del benessere delle famiglie. Li può solo conservare nella precarietà e  frenare l’innovazione. 
Non è detto inoltre che ogni associazione, ogni gruppo, ogni cooperativa debbano essere finanziati. Né il finanziamento può ritenersi un indice assoluto di validità dei progetti, ma solo la scelta politica sulla priorità di un servizio rispetto ad altri. Molti possono e debbono autofinanziarsi. Altri, per la peculiarità dei servizi, per l’innovazione che promuovono, per il valore dei servizi che svolgono a singoli, famiglie e comunità, vanno adeguatamente sostenuti.
La partecipazione, non la delega in bianco diventa un’effettiva risorsa, per gli organismi della solidarietà sociale e per le amministrazioni. Una partecipazione che vuol dire proposta, critica, controllo, verifica.
Molto importanti sono le sinergie tra servizi, pubblici e del privato sociale, aperti alla cooperazione e senza presumere che ci siano “figli di un Dio minore”. Spesso, nei servizi pubblici, si assiste al dominio di “esperti” che tendono a ideologicizzare le risposte, ponendosi sempre più lontani dalle persone coinvolte, e peggio a praticare come unica forma di relazione, l’au­toreferenza.
Non sempre i servizi sociali pubblici sono gestiti come beni comuni.  Conta molto il tasso di motivazione, l’esperienza, la volontà di mettersi in gioco, degli operatori e dei dirigenti, l’umiltà capace d’ascolto, la consapevolezza dei rischi del burocratismo nella concezione dei propri diritti sul lavoro. Conta particolarmente il posto che è assegnato alla persona destinataria delle cure e dei servizi e della sua famiglia, termine quest’ultimo, col quale ci si riferisce, per comodo, ad una struttura omogenea, mentre presenta una varietà di situazioni fortemente condizionanti l’approccio dei servizi (soggetti componenti: monoparentale, condizioni di salute, abitazione, numero ed età dei componenti, reddito, cultura, ecc.).

È importante inoltre tener conto della molteplicità e variabilità delle problematiche, nei servizi sociali, delle difficoltà e a volte della pesantezza del lavoro, del problema delle competenze, delle professionalità, dell’umanità che non è garantita né dai diplomi, né dai crediti formativi, né dai concorsi.
Molti problemi non sono risolti e spesso nemmeno affrontati.

Inoltre bisogna fare in modo che l’organizzazione del lavoro in termini d’orari e turni, sia nei servizi diurni sia in quelli residenziali e di pronto soccorso non siano contraddittori con i tempi e i bisogni delle persone che vi lavorano, oltre che con quelli delle persone che ne usufruiscono.
Il problema della verifica, dell’idoneità pratica è molto importante e deve essere rigoroso. Le cronache quotidiane segnalano fenomeni allarmanti e gravi, d’impunità, d’irresponsabilità, di singoli e di amministrazioni (Si veda: Corte dei Conti: “Poco rigore con il personale pubblico”, Sole 24 ore del 19.5.06).
Per questo, anziché adagiarsi sullo status quo che scontenta sia gli operatori, sia le persone affidate e le loro famiglie, si dovrebbero sperimentare regolamentazioni mirate alla concretezza dei servizi svolti, che tengano conto della professionalità necessaria, dell’esperienza, del tasso di stress accumulabile in determinate aree lavorative.
Si possono immaginare regole aderenti ai bisogni degli assistiti e degli operatori: dal tempo di lavoro, orari turni, alle ferie, modalità e tempi di godimento, all’aggiornamento, a periodi sabbatici. Stupisce che i contratti di lavoro degli addetti a questi servizi più che cogliere le specificità, sono generici e seguono il modello del lavoro di fabbrica.

Concludo prendendo a prestito queste parole di Lamberto Valli scritte in un articolo dal titolo ”Sl’è nota, us farà dè”, sull’impegno e la speranza, nel quale esortava :

“A non sentirsi mimetizzati nell’ombra anonima della notte.
A riscoprire la gioia di essere i protagonisti dell’avventura personale e della comune costruzione sociale.
A proporsi l’impegno del rinnovamento…del dare spazio a ciò che è nuovo…..e lavorare per edificare questo mondo più degno che, da sogno delle nostre notti, deve diventare opera delle nostre giornate”.

Ed infine con un aneddoto che rende bene l’orizzonte educativo verso cui tendere:  “QUANDO COMINCIA IL GIORNO?” Chiese un Rabbino al suo discepolo. Il discepolo: “Quando non confondo più il tenebrino con la palma”. “Questo non basta” rispose il maestro. E il discepolo “Forse quando riesco a distinguere un cane da pastore da una pecora nera”. Il Rabbino: “Anche questo non basta. Solo quando riuscirai a riconoscere tuo fratello nel volto di un altro uomo, solo allora si è fatto giorno”.

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